giovedì 6 maggio 2010

In Italia venti anni di istruzione perduta


In Italia venti anni di istruzione perduta
di A. Asoni e F. Monte *

Tra le ragioni che spiegano il benessere economico di cui beneficiamo vi è l’accumulazione di capitale umano, ovvero di conoscenza teorica e pratica, da parte di ognuno di noi. Parte di questa conoscenza deriva da quello che impariamo sul posto di lavoro; il resto ci viene dall’istruzione formale ricevuta a scuola. Con questo articolo iniziamo una serie di interventi volti ad analizzare la situazione italiana; in particolare ci concentreremo sull’istruzione universitaria.

Il grafico mostra il livello di istruzione universitaria in diverse coorti della nostra popolazione rispetto ad alcuni altri paesi dell’OCSE: i markers di diverso colore indicano la frazione di popolazione tra 25 e 34 anni con un titolo di studio universitario. Ad ogni colore corrisponde un diverso anno. Per esempio nel 2006 in Italia quasi il 20% dei giovani tra 25 e 34 anni ha una laurea. Il paese che fa meglio nel 2006 è il Canada dove la percentuale di laureati arriva quasi al 60%.

Il quadro per l’Italia è veramente desolante. Ci troviamo al quartultimo posto nel 2006 (tra tutti i paesi OCSE, non solo quelli riportati). Facciamo meglio solo di Turchia, un paese con un PIL pro capite poco sopra ad un terzo di quello italiano, di Repubblica Ceca e Slovacchia. Purtroppo questo non è un fenomeno recente: il nostro paese ha fatto sistematicamente peggio di quasi tutti gli altri paesi sin dal 1968 (primo anno per cui abbiamo i dati). È interessante notare come i paesi di cultura anglosassone (Canada, Stati Uniti, Irlanda, Gran Bretagna) siano invece ai primi posti o comunque sopra la media. La Corea del Sud, di cui abbiamo parlato nel nostro primo articolo, cominciava al nostro stesso livello; oggi primeggia.

Vi è un secondo dato da sottolineare. La crescita nei livelli di istruzione nel tempo è un fenomeno generalizzato. L’Italia in questo senso non fa eccezione, tranne in un punto: tra il 1976 e 1998 la porzione di giovani con un titolo universitario è cresciuta pochissimo. I due punti sul grafico sono quasi impossibili da distinguere. Un “ventennio perduto” nel quale la posizione relativa dell’Italia rispetto a paesi come la Francia, la Svezia o il Belgio è peggiorata notevolmente. Se avessimo avuto una crescita paragonabile a quella della Grecia o della Spagna oggi saremmo intorno alla media europea invece che tra gli ultimi quattro.

E’ interessante accostare questo risultato a quello presentato in un precedente articolo: è proprio nello stesso periodo che l’Italia ha smesso di convergere verso paesi più ricchi.

Quale è la causa del nostro “ventennio perduto”? Ovviamente molte sono le ragioni dietro la nostra arretratezza, e non possiamo certo discuterle tutte. Per capirne meglio la dinamica però possiamo anzitutto interrogarci sulle ragioni individuali dell’accumulazione di capitale umano. Il premio nobel per l’economia Gary Becker (1964) ha dato un contributo fondamentale alla comprensione di questo problema. Accumulare conoscenza è come investire in capitale fisico: richiede un costoso investimento iniziale che inizierà a produrre un flusso economico positivo solo nel futuro.

I costi dell’investimento sono di due tipi: diretti, come il costo della retta universitaria (che in Italia in ogni caso è sussidiata dalla collettività), e indiretti, come gli stipendi a cui si rinuncia per andare all’università. Invece di frequentare l’università un potenziale studente potrebbe iniziare a lavorare e guadagnare sin da subito dopo le scuole superiori; questi mancati guadagni devono essere inclusi tra i costi della sua istruzione.

I benefici dell’investimento ovviamente sono i maggiori guadagni che un laureato ottiene in media rispetto ad un non-laureato. Una teoria completa include infine tra i benefici anche l’eventuale maggiore utilità che lo studente trae dalla vita universitaria rispetto al lavoro e dalle diverse caratteristiche dei lavori che potrà fare (a parità di stipendio, alcune attività sono più gratificanti di altre; questo ovviamente varia da individuo a individuo). La teoria economica del capitale umano dice che un individuo deciderà di andare all’università se i benefici attesi dall’istruzione universitaria sono maggiori dei costi.

Questa teoria ci suggerisce che per capire cosa sia successo in Italia dobbiamo guardare ai costi e ai benefici dell’educazione universitaria. Questo è ovviamente un argomento vastissimo. In questo articolo vorremmo solo fare riferimento ad un dato già riportato in un articolo precedente: la pressione fiscale in Italia è aumentata notevolmente (dal 34% al 46% del PIL) nel ventennio di cui ci stiamo occupando. Un aumento della pressione fiscale, soprattutto se attuata attraverso un aumento delle aliquote fiscali più alte, è a tutti gli effetti un aumento della pressione fiscale sul capitale umano e ne scoraggia l’accumulazione.

Una misura di politica economica utile ad incentivare l’accumulazione di capitale umano e promuoverne gli effetti benefici su ricchezza e produttività nazionale sembrerebbe dunque essere la diminuzione della aliquote marginale sui redditi più alti.

* Andrea Asoni e Ferdinando Monte sono entrambi Ph.D. Candidates presso la University of Chicago e autori del blog www.ideemarginali.org

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