martedì 20 luglio 2010

Come reagire a Nichi Vendola


Come reagire a Nichi Vendola
di Salvatore Tatarella

Il Governatore della Puglia è sceso in campo. La sua candidatura per le primarie del Pd è ufficiale. Il Partito democratico, che nemmeno in questo momento di crisi del berlusconismo è in grado di mettere in campo una proposta politica unitaria e credibile, osserva attonito. Quando si scuoterà, litigherà a lungo, prima di trovare l’accordo su un candidato alternativo, ma sarà troppo tardi. Nichi intanto avrà già percorso tutta l’Italia, in lungo e in largo, facendo, da solo e prima di chiunque altro, due campagne elettorali in una. La prima, nella sinistra e per le primarie, la seconda nel Paese e per il governo. Vincerà certamente la prima. Vediamo di non fargli vincere anche la seconda. Ma come? Nel Pdl molti già si fregano le mani.
Vendola, sostengono costoro, è un candidato estremista; spaventerà l’elettorato moderato, col doppio risultato di far perdere voti al Pd e farli guadagnare al Pdl. Non concordo su questa analisi, che considero datata e semplicistica, ma di questo mi occuperò più in là. Guardo, per ora, a quanto accade nel Pdl. Dopo Claudio Scajola e Aldo Brancher, si è dimesso anche Nicola Cosentino. Tutti hanno plaudito. Non solo quegli ingrati di Generazione Italia. Persino il Giornale e Libero. La pulizia del Pdl è appena cominciata, hanno titolato. Ci ha pensato personalmente Silvio Berlusconi, che ad agosto, mentre tutti gli altri italiani andranno in vacanza, metterà mano anche alla riorganizzazione e al rilancio del partito. Contento? Per niente. La pulizia del partito non è affatto cominciata. Anzi. Vedo solo tatticismi, furbizie e un preoccupante fare quadrato, a difesa anche dell’indifendibile. Denis Verdini è ancora il coordinatore nazionale del Pdl, come Nicola Cosentino lo è della Campania. Il primo, accusato fra l’altro, anche di manovrare dossier falsi contro un parlamentare del suo partito, continua a restare al suo posto. Ha fatto sapere di non aver alcuna intenzione di dimettersi e i suoi colleghi, e lo stesso Berlusconi, gli hanno espresso solidarietà e fiducia. Lo stesso dicasi per Cosentino. Quest’ultimo non si era dimesso nemmeno quando la Corte di Cassazione aveva convalidato l’ordine di arresto nei suoi confronti. Lo ha fatto ora, ma solo per evitare il voto in Parlamento sulla mozione di sfiducia. Così come, qualche settimana prima, aveva già fatto il ministro Aldo Brancher. Uscito dal governo, ha mantenuto intatti ruolo e potere, oltre alla fiducia, che in lui continua a riporre Silvio Berlusconi. Se il buon giorno si vede dal mattino, c’è poco da stare allegri. Mi preoccupa molto l’idea che, in una sfida con Nichi Vendola, il mio partito possa essere guidato ancora da un personaggio come Denis Verdini. Non faccio il moralista. Metto nel conto che intorno a uomini di potere possano aggirarsi famelici avvoltoi e faccendieri senza scrupoli. Se non li si vuole scacciare, che li si tenga almeno a distanza. Mi ha, invece, molto colpito il tono assai riverente, quasi servizievole, col quale il coordinatore nazionale del primo partito italiano usava trattare un pregiudicato, piduista, come Flavio Carboni, tale da ingenerare il dubbio su chi fosse, dei due, il più potente. Dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, Silvio Berlusconi poteva dare un segnale forte al Paese e al suo partito, mandando subito a casa, sia Verdini che Cosentino. Invece, se li è tenuti entrambi, li ha difesi e, presumibilmente, anche con loro intenderà riorganizzare e rilanciare il partito.
Sotto questi auspici ci apprestiamo a prepararci per lo scontro con Nichi Vendola? Pensiamo ancora di vincere con uno stuolo di incapaci, di inetti e, qualche volta, di impresentabili, coperti solo dal grande scudo della popolarità di Silvio Berlusconi? Pensiamo che sia ancora sufficiente? Io penso di no e non mi stancherò mai di ripeterlo. Così perdiamo. E’ necessario subito un forte segnale di discontinuità, una “rupture”, per dirla alla francese. Berlusconi ne ha avuta l’occasione. Non l’ha colta, ma è ancora in tempo per farlo. Cominci con il mandar via, sia Verdini che Cosentino. Se non ne avrà il coraggio, sfidare Vendola toccherà ad altri. Ma non c’è molto tempo, Vendola è già in campo. Non gli possiamo regalare un vantaggio, che rischierebbe di diventare incolmabile. Per informazioni, chiedere a Massimo D’Alema e Francesco Boccia.

venerdì 16 luglio 2010

Ma è in Puglia che si deciderà il futuro…


Ma è in Puglia che si deciderà il futuro…
di Salvatore Tatarella


"Articolo pubblicato sul numero di luglio della rivista “Formiche”


Dove va e che farà Gianfranco Fini? Sono in molti a porsi oggi questa domanda. Naturalmente se la pone anche Silvio Berlusconi che, però, spesso ama scherzare anche sulle questioni più serie, affidandosi a qualche barzelletta. E così, da qualche settimana e per sua iniziativa, circola insistentemente quella dell’ex missino che, per sapere cosa intenda fare l’amico Gianfranco, si rivolge speranzoso alla lampada di Aladino. Barzellette a parte, prima ancora che interrogarsi su cosa voglia fare Gianfranco Fini, credo che il premier farebbe bene a riflettere meglio su cosa intenda fare lui per primo. Abbiamo appreso che conta di vivere sino a 120 anni e che intende governare ancora a lungo, perché in Italia, sia nell’opposizione che nella sua stessa coalizione, non c’è uno che possa fare come e meglio di lui. Naturalmente, il Cavaliere questi propositi si è ben guardato dall’esporli all’Ufficio di Presidenza o alla Direzione nazionale del suo partito. Fedele al suo personaggio, ha preferito una più amicale cena, non ricordo bene, se a Roma, con gli impomatati ragazzotti e le scosciate ragazzotte dei suoi Promotori della Libertà, o nella capitale della Bulgaria, con il critico d’arte Vittorio Sgarbi e l’ex gorilla Boyko Borisov, oggi premier di quel paese. Anche noi, prima di guardare alle intenzioni di Fini, dovremmo cominciare a riflettere su quelle di Silvio Berlusconi. Senza inutili allarmismi e augurandogli personalmente anche 150 e più anni di vita, ma con la maturità e il senso di responsabilità, che sempre debbono connotare la classe dirigente di un partito, che conserva l’ambizione di guidare ancora e a lungo il nostro Paese, anche dopo e senza Silvio Berlusconi. Capisco
che un tema come questo possa infastidire e indignare la categoria dei giullari e dei cortigiani che, in ogni epoca, ha sempre affollato le anticamere del potere. A loro basta e avanza la favola gioiosa del Cavaliere invincibile e immortale. Per chi, invece, voglia vedere oltre la corte e oltre il proprio naso questa è la questione prioritaria e direi dirimente. Cosa voglia fare Silvio Berlusconi è fin troppo chiaro. Perché lo ha già detto più volte; perché, per storia, carattere e formazione, non è uomo che si metta spontaneamente da parte; perché, infine, non ha altre alternative.
Infatti, nemmeno in questa legislatura riuscirà a fare quelle riforme, sempre promesse in ogni campagna elettorale, a cominciare da quella lontanissima del 1994, e mai realizzate: liberalizzazioni, riduzione della pressione fiscale, riforma dello Stato. Non andrà a segno nemmeno l’agognata riforma presidenzialista, per farsi eleggere Capo dello Stato direttamente dal popolo. Non gli resta, quindi, che presentarsi ancora candidato premier anche alle prossime elezioni politiche del 2013. Per la sesta volta consecutiva e diciannove anni dopo la sua prima e storica discesa in campo. Può vincere ancora? La risposta, ovviamente, Berlusconi già se l’è data. Vincerà di sicuro. Il suo ego non ammette alternative. La stessa domanda, però, è giusto che se la pongano anche il Pdl, tutto il centro destra italiano, e anche tutta quella vasta opinione pubblica, non necessariamente di centrodestra, che ha a cuore i destini del Paese. Domanda complessa e difficile, che postula una risposta meno tranciante e meno sbrigativa di quella verosimilmente data da Silvio Berlusconi. Lo scenario del Paese sta cambiando profondamente. Non è più quello che ha accompagnato sino a ieri i successi elettorali di Berlusconi. La crisi economica ha cominciato a far sentire i suoi morsi e, dopo le vacanze, si svelerà in tutta la sua drammaticità, con aziende sull’orlo della chiusura e con migliaia e migliaia di lavoratori a rischio licenziamento. Dovremo cominciare a ridurre per davvero le nostre spese, a cambiare il nostro stile di vita e a rinunciare, speriamo solo temporaneamente, a lussi, privilegi e comodità, alle quali ci eravamo da tempo assuefatti e che mai avremmo pensato di dover un giorno abbandonare. Gli anni che ci separano dalle prossime elezioni, pertanto, saranno anni duri, di conflitti sociali aspri e difficili. Penso che non sia un atto di lesa maestà, ma solo di preveggente buon senso, se, sin da ora, ci interrogassimo su “come e con chi” affrontare quella difficile scadenza.
La crisi economica, intanto, rischia di rimettere in pista la sinistra. I risultati elettorali della Sardegna, seppur parzialissimi, sono un primo, piccolissimo segnale d’allarme. E a sinistra, sembra vada formandosi qualcosa di nuovo. Berlusconi, forse, ancora non se n’è accorto, ma in Puglia le urne, e qualche plateale e imperdonabile errore dei suoi modesti luogotenenti locali, hanno svelato un nuovo leader. E’ Nichi Vendola, gay, cattolico e governatore di una delle regioni più vivaci e moderne del sud. Non nasce, come in passato è sempre accaduto a sinistra, da una selezione interna al partito o al sindacato. Non è espressione della nomenclatura. Anzi, a questa si è opposto con successo, appellandosi al popolo e sbaragliando alle primarie gli apparati e le truppe organizzate di Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, che in ogni modo e sino all’ultimo avevano tentato di sbarrargli il passo. Vendola non è affatto pago del successo ottenuto. Vuole di più e ha già avviato, prima dello stesso Bersani e di chiunque altro, la sua campagna per le primarie del centrosinistra, del quale vuole essere il candidato premier nel 2013. E’ presto per dire se ci riuscirà. In ogni caso, egli si rappresenterà come il volto nuovo della sinistra. Il volto di un irregolare, di un mistico, di un profeta. Ambizioso, cattolico, poeta e omosessuale dichiarato, ha una solida cultura umanistica, assai lontana da quella delle telenovelas e dei reality d’importazione americana. Predica la fine dei partiti, buca il video, incanta i salotti, infiamma le piazze. Suscita emozioni forti e sa parlare ai giovani, alle donne, ai deboli. Ha saputo costruire un ottimo rapporto con molti esponenti della cultura, dell’arte e della scienza. Nonostante la sua omosessualità, ha un buon rapporto anche con il mondo cattolico. Forse più intenso e, per alcuni versi, più autentico di quello soltanto esibito da molti esponenti del centrodestra. Per raggiungere il suo scopo ha fondato un suo piccolo partito e una organizzazione assai flessibile di piccoli gruppi e movimenti spontanei diffusi sul territorio, le “fabbriche di Nichi”.
Per il centrodestra potrebbe essere un avversario molto ostico. Innanzitutto, perché sarà sottovalutato. Come per due volte di seguito ha fatto Raffaele Fitto, la ex protesi del Cavaliere, collezionando due cocenti e consecutive sconfitte. Poi, perché, soprattutto rispetto a Berlusconi, alla sua sesta candidatura consecutiva, gli riuscirebbe assai facile rappresentarsi come il nuovo della politica, il Barack Obama italiano. Egli metterebbe in campo proprio la forza dirompente della novità, la stessa che ha reso sino ad oggi invincibile Silvio Berlusconi e che il Cavaliere non può più rappresentare, dopo aver dominato e caratterizzato gli ultimi vent’anni di vita italiana. Sbaglierebbe di molto il Cavaliere se pensasse di poter vincere agevolmente la partita contro Vendola, solo perché questi è gay, radicale, estremista e comunista. Nichi non è un estremista, non è un radicale, e anche i comunisti sono ormai una categoria del passato, che sopravvive solo nel lessico del Presidente del Consiglio. È pur vero che l’Italia, dal dopoguerra a oggi, ha sempre espresso una maggioranza elettorale moderata e non di sinistra e che, in tale contesto, sarebbe assai difficile ipotizzare una vittoria di un leader dichiaratamente di sinistra come Vendola. Questo è vero, se si ha riguardo solo ai tradizionali serbatoi elettorali della sinistra, il bracciantato agricolo nel sud e le classi operaie delle grandi fabbriche nel nord, ma questa Italia non esiste più da tempo. Classi sociali ed elettorati oggi sono molto più simili e omogenei di prima. La sinistra ha perso negli ultimi vent’anni, anche perché non si è resa pienamente conto dei grandi cambiamenti intervenuti nella società italiana. Il suo elettorato di riferimento stava cambiando e la sinistra non se ne avvedeva. Vendola, invece, sembra essersene reso conto per primo. Il suo elettorato non è più solo quello tradizionale della vecchia sinistra, e meno che mai la sua frazione estrema e radicale, ma quello, molto più vasto, che, in larga parte, confina e coincide con quello del centro destra. Un elettorato di giovani e di donne, di commercianti, impiegati, artigiani, agricoltori e professionisti, sostanzialmente borghese, urbano e moderato, ma deluso, preoccupato, spaventato e in cerca di coraggiose e innovative risposte ai nuovi e pressanti problemi posti dalla società. Un elettorato anche assai mobile e poco ideologizzato, che vota, scegliendo di volta in volta l’offerta politica più convincente e il leader al quale affidarsi. Per gli ultimi vent’anni ha scelto sostanzialmente sempre e solo Silvio Berlusconi, ma domani, di fronte a un leader nuovo, più giovane, e sopratutto capace di suscitare nuovi sogni e nuove rappresentazioni, potrebbe fare scelte diverse.
Per evitarle e prevenirle, a Gianfranco Fini non resta che scendere in campo in prima persona e lanciare la sfida della sua leadership.
Al Pdl, a tutto il centrodestra e al Paese intero. Subito, senza timori e senza ulteriori cautele e tatticismi. Il tempo, ormai, corre veloce e Fini potrebbe averne anche poco a sua disposizione. Invero, a tanto avrebbe già dovuto pensare per tempo lo stesso Silvio Berlusconi che, però, come spesso è accaduto ai grandi della storia, non ha mai pensato a costruire la sua successione. Anzi, egli continua a pensare di essere indispensabile al Paese e a protrarre oltre ogni limite la sua stagione politica. Da qualche tempo, Fini lancia segnali, pone problemi, suscita discussioni. Storica, perché del tutto impensabile per un uomo come Silvio Berlusconi, la sua mano alzata e la sua sfida, quasi fisica, alla Direzione Nazionale del Pdl. Quella di Fini, a volte, è una salutare azione di stimolo, a volte, di freno. Le sue posizioni in tema di Mezzogiorno, difesa dell’unità nazionale, lotta alla criminalità organizzata, prerogative del Parlamento e libertà di stampa sono state tutte esemplari e di generale consenso, ma resterebbero pur sempre poca cosa, se non fossero espressioni di un disegno più grande e più vasto. Quello di rappresentare la continuità del centrodestra dopo Silvio Berlusconi, il ritorno alla normalità di un centrodestra plurale, europeo e democratico, dopo l’avventura straordinaria e necessariamente unica del suo fondatore. Non si tratta solo di soddisfare una pur legittima ambizione personale. È molto, molto di più. È la sola, possibile risposta da destra a una sinistra nuova e diversa. La sola carta spendibile per una destra, che non voglia assistere, ferma e vecchia, al suo prematuro tramonto. Fini, dunque, è finalmente giunto innanzi al Rubicone della sua vita. O lo varca e si impone come leader di un nuovo centrodestra italiano, o resta imbrigliato, forse per sempre, nella palude di un tatticismo esasperato e inutilmente prudente. Con lui non ci sono più gli ex colonnelli, che lo hanno abbandonato, compiendo una scelta comoda e miope. Con lui, invece, c’è una nuova linfa vitale, c’è il consenso fresco, forte e convinto di una larghissima e matura opinione pubblica. Sono le sue nuove e più fedeli legioni. Quelle che, forse, solo vent’anni fa, quando era ancora il leader di una destra minoritaria e radicale, non lo avrebbero degnato nemmeno della loro attenzione, ma che oggi guardano con grande interesse al solo leader italiano, che ha dimostrato di saper guardare lontano, non temendo di tagliare, se necessario, qualche inutile e vecchio legaccio. Dargli il giusto consiglio su “come e quando” lanciare i suoi dadi, non è facile, anche se una cosa resta certa. Le leadership non si ereditano, si conquistano. E il momento sembra essere giunto. O si pone ora alla guida di un nuovo e moderno centro destra, conquistando e costruendo quel partito che ancora non c’è, o sui colli di Roma spunterà presto un nuovo leader. E questa volta potrebbe non essere di destra.