mercoledì 21 aprile 2010

L’unità del PdL? Ci sarà solo con congressi e democrazia interna


L’unità del PdL? Ci sarà solo con congressi e democrazia interna
di Antonio Buonfiglio



Il leitmotiv che ci ha accompagnato nella discussione di questi giorni è la presunta estraneità di Gianfranco Fini alle sensibilità culturali e politiche confluite nel grande progetto del Popolo della Libertà.

In realtà, le posizioni da più parti palesate, in vista della convocazione della Direzione Nazionale di domani, si snodano attorno ad un elemento comune e qualificante che dimostra come i temi posti dal Presidente della Camera, non solo siano indispensabili al compimento del processo di costruzione del partito, ma facciano parte del DNA quantomeno di tutti i Parlamentari che provengono da Alleanza Nazionale.

Infatti, nella mozione dei 75 ex-aennini, che passa come “documento anti – Fini”, viene affermata la necessità di:

- “dare luogo ad un costante libero, proficuo confronto di idee, che si basi su regolare e sempre più frequente incontro degli organi statutari del partito”;
- garantire “il massimo della democrazia interna e il rispetto di tutte le posizioni”;
- assicurare la valorizzazione e il radicamento del partito “attraverso i congressi previsti dallo statuto affinché sul territorio una scelta democratica prenda il posto delle prime designazioni avvenute tenendo conto delle quote di provenienza”.

E’ ridicolo e superficiale, pertanto, tradurre pregiudizialmente le richieste politiche di Fini in rivendicazioni velleitarie e personalistiche; tanto più quando esse coincidono con quelle avanzate dalla totalità dei componenti di uno dei partiti che ha dato luogo al PdL.

Fuori dei posizionamenti, dunque, la conseguenza pratica dovrebbe essere quella di presentare una mozione unica che “sblocchi” il partito e dia inizio – proprio ora in assenza di scadenze elettorali – alla stagione dei congressi, a partire da quelli provinciali e delle grandi città. Non v’è dubbio, infatti, che al di là delle conte parlamentari, le linee, le mozioni e le posizioni vanno dibattute e votate nei congressi, secondo criteri democratici, per dar luogo a quella contaminazione che chiuderà definitivamente la stagione delle quote e delle rendite.

Fini, infatti, non chiede – e lo ha dimostrato - di essere autorizzato ad esternare le proprie idee ma di poterle discutere all’interno del partito: gli si rimprovera si essere lontano e quando cerca di confrontarsi viene additato come destabilizzatore.

Ancora una volta si confonde l’unanimismo con l’unitarietà!

Ad ogni modo, anche se non si dovesse giungere ad mozione unica, l’esigenza di conferire al partito forma stabile, partecipata e democratica è stata manifestata e rimane.

E non poteva che essere così.

In questi giorni, quando ci sforzavamo di far comprendere come le questioni poste fossero di carattere politico ed organizzativo, ricordavamo che, nella tradizione della destra italiana è sempre stata presente l’esigenza di democratizzare i partiti, anche discutendo delle modalità di attuazione dell’art. 49 della Costituzione.

E’ evidente, infatti, – e lo è molto di più in un sistema tendente alla semplificazione delle rappresentanze – che, al di là della legge elettorale, perché un partito possa garantire una leale competizione con un dibattito di idee e di uomini, in cui l’alternativa sia tra maggioranza e minoranza e non tra unanimisti e scissionisti, è fondamentale individuare regole di pubblicità, democrazia e trasparenza.

L’assenza di un confronto interno, del resto, è il sale delle telerisse e la pastura delle scissioni.

In modo sempre più cogente, inoltre, tutti gli schieramenti affiancano alla necessità di avere una leadership quella di un’ampia partecipazione dal basso per poter opportunamente scegliere i rappresentanti e raccogliere le istanze dei cittadini.

Se la seconda Repubblica, infatti, ha avuto il merito di generare forme di democrazia diretta e di alternanza, non ha ancora affrontato la questione della selezione della classe dirigente né quella delle modalità di stabilizzazione del confronto dentro e fuori i contesti istituzionalmente deputati – per dirla con i 75 – “per attuare, integrare ed aggiornare il programma elettorale”.

Diversamente, si potrebbe correre il rischio di amplificare la distanza e il malessere degli elettori che sempre più si esprimono con l’astensionismo; fenomeno questo che, ragionevolmente, non può essere liquidato quale effetto della mancata comprensione di alcune provocazioni culturali -magari fosse così! – né semplicemente compensato ricorrendo al localismo.

Per questo, siamo ora chiamati a fare un passo avanti.

Quali sostenitori di un sistema di esecutivo rafforzato, nell’epoca della concentrazione delle formazioni politiche, non possiamo più affidare il meccanismo di selezione della classe dirigente alla sola legge elettorale ma dobbiamo incidere, in modo determinante, sui processi regolatori dei partiti, fuori dei quali l’alternativa è solo una prospettiva personalistica o lobbistica che impoverisce le istituzioni.

Fuori da pregiudizi e recinti, dobbiamo, dunque, costituzionalizzare i partiti per renderli stabili e duraturi. Proponiamo questo intervento radicale quale contributo primario del PdL al processo di riforme per inserirci nella linea di trasformazione già in atto a livello europeo, dove l’istituzionalizzazione attraverso il riconoscimento della personalità giuridica è prevista dal Regolamento 2004/2003 del Consiglio, che ne subordina l’attuazione ai principi di democrazia interna.

Facendo poi omaggio all’anima socialista, altra cultura fondante il popolo della libertà, permettetemi, inoltre, di citare alcuni passaggi, di assoluta attualità, contenuti nell’ultima intervista resa da Bettino Craxi a Dolcetta: “Le idee necessitano di un forte apparato politico, di un partito strutturato, questa è la lezione che emerge dal fallimento [….] Gli uomini migliori sono quelli che nascono dalle esperienze, dalle lotte, dalla cultura […] Si formeranno sicuramente, a meno che questa democrazia italiana non sia ridotta, proprio sul lastrico della cloroformizzazione teleguidata, e quindi sia resa una democrazia asfittica nella quale non c’è un posto dove incontrarsi, non c’è un giornale dove scrivere, non c’è una sede dove fare un dibattito, non c’è un posto dove votare”[….] Come si organizza la democrazia? Come vive la democrazia? Esiste l’associazionismo democratico che si confronta, si combatte, confligge, non si allea, oppure tutto è destinato progressivamente a isterilirsi in nomenclature che, per sopravvivere, hanno bisogno di comparire in televisione. Non è che non sia necessario ma non possiamo diventare una democrazia interamente teledipendente”.

Dal confronto tra due uomini e, soprattutto, tra due grandi culture politiche nasca finalmente la possibilità di scrivere lo statuto della nuova politica e di proiettare il PdL nel futuro

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