domenica 25 aprile 2010

Fini come Nancy?.


Fini come Nancy? Sì, il profilo del presidente della Camera già è cambiato da tempo

di Orazio Abbamonte*




Quando il sistema politico non corrisponde più all’ordinamento costituzionale è naturale che le cerniere tra l’uno e l’altro – le prassi istituzionali – stentino a svolgere il compito che è loro proprio: riempire di rassicuranti contenuti tutti quegli spazi che non è possibile regolare con norme scritte, perché attengono ai rapporti tra massime cariche dello Stato e devono necessariamente essere lasciati alla capacità di autoregolazione degli uomini chiamate a ricoprirle.

E’ questa, mi sembra, la vicenda oggi attuale degli spazi, appunto, che il presidente della Camera può occupare nel dibattito politico. Inutile negare che la consolidata prassi costituzionale, formatasi sin dai primi anni dell’Italia repubblicana, ha collocato i vertici dei due rami del Parlamento tra quelle cariche cosiddette istituzionali, con compiti e ruoli di terzietà: dunque, fuori dal dibattito politico, almeno quello più acceso ed impegnato. Ma si tratta, appunto, prassi formatesi sotto il vigore d’una costituzione che non ha più riscontri nella realtà politica attuale: una costituzione che si caratterizzava per lo stemperamento d’ogni personalità politica, dove nessuno, capo del governo, dello stato, presidenti delle camere doveva avere un ruolo stagliato. Lo stesso Parlamento, con il meccanismo unico al mondo (credo) del bicameralismo perfetto, era studiato per perdere di puntuale caratterizzazione politica: ed il vero centro decisionale era al di fuori delle istituzioni, nei cosiddetti vertici dei segretari di partito. Non a caso, sino alla caduta della prima repubblica, a capo delle camere erano posti uomini come Gronchi, De Nicola, Merzagora, Leone, Cossiga, Ingrao, Iotti e così via: vale a dire personaggi autorevoli ma non esposti in primo piano nei rispettivi partiti: non, insomma, segretari politici.

Oggi è sin troppo evidente che il quadro è mutato. E se non v’è dubbio che la funzione istituzionale richieda esercizio neutrale, non altrettanto certo può dirsi il dovere di astenersi dalla partecipazione alle tensioni politiche. Quando a svolgere il ruolo di presidente della Camera è chiamato chi viene dalla segreteria politica del suo partito ed è cofondatore del partito di maggioranza relativa, probabilmente la marcata deviazione dalla prassi d’un tempo è già avventa con questa scelta. Perché se è lì su quel soglio, vi è in quanto esponente di punta della forza politica; ed allora quell’uomo politico ci starà con le sue caratteristiche e con la sua storia ed è già di per sé quella elezione a spostare l’asse della prassi. Le istituzioni si connotano anche per gli uomini che le impersonano e questi uomini non sono indifferenti alla loro azione.

Se è ovvio, quindi, che il presidente della Camera nell’esercizio delle sue finzioni deve mantenere terzietà e rispettare i suoi doveri regolamentari, non mi pare altrettanto ovvio che debba anche tenersi lontano dalla politica attiva. Ed anzi a me sembra che proprio intervenendo contribuisca a rendere forte quel contatto tra le istituzioni e le dialettiche politiche, la cui distanza era uno dei più gravi difetti della prima repubblica, quello che più aveva condotto all’emarginazione delle istituzioni. E’ una storia ancora tutta da scrivere: che produce e produrrà traumi, proprio perché manca di prassi rassicuranti. Ma è anche in questo modo che la politica si rinnova.

* Docente di Storia delle Costituzioni Moderne presso la seconda Università degli Studi di Napoli

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